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L’altro volto della speranza di Kaurismäki: la summa di una voce unica

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l'altro volto della speranza

 

di Alessio Gorgeri

 

 

Inizia con la fuga di due uomini molto diversi l’ultimo (probabilmente in tutti i sensi) film del finlandese Aki Kaurismäki, L’altro volto della speranza. Khaled, giovane siriano di Aleppo appena sbarcato in Finlandia, scappa dai bombardamenti e dalla devastazione; Wikström, commerciante di mezz’età, fugge dalla moglie e dal suo lavoro, desideroso di passare nel settore della ristorazione. Sembrerebbe terreno fertile per una classica storia “due personi agli antipodi che hanno in comune più di quanto non appaia”, ma dobbiamo ricordarci chi è il regista.

Wikström, dopo una fortunata vincita a poker, acquista uno scompaginato ristorante con scompaginato personale annesso. Khaled chiede asilo alla polizia, lo fanno aspettare in cella, lo spediscono in un centro di accoglienza e una funzionaria statale, più automa che persona, raccoglie la sua deposizione: veniamo a sapere che era fuggito con la sorella, unici superstiti della famiglia, ma alla frontiera ungherese si erano separati per cause di forza maggiori. I due si incontrano e Wikström cercherà di aiutare Khaled.

Kaurismäki è uno di quei registi talmente ossessionati da certe idee e concetti da girare spesso film che si somigliano: Allen, Tarantino, Bergman, Tarkovskij. Questo si potrebbe dire anche di Michael Bay ma provate a dire “il solito film di Michael Bay” e “il solito film di Bergman”.
In questo senso L’altro volto della speranza è il solito film di Kaurismäki.

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