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Un senso diverso dell’acqua in fotografia

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Manjari Sharma, serie Anastasia.

di Alessandro Pagni

«L’acqua è vita!» recitava un orrendo manifesto, nella camera di un vecchio amico d’infanzia.
Sua madre, preoccupata nel vederlo veleggiare verso le insidiose paludi della pubertà, decise di regalargli una piccola collezione di poster sul pensiero positivo, nell’inutile tentativo di controbilanciare le appetitose tentazioni, delle gigantografie allegate a settimanali soft-erotici, che al tempo acquistavamo, considerandoli un ottimo compromesso fra la totale resa alla pornografia e la perdita della ragione.
Di tutti quegli incoraggiamenti ad una visione più aperta e solare verso il presente (uno mi sembra recitasse «Pensa Positivo = Energia»), è rimasta solo questa ovvietà sull’acqua, talmente banale da riproporsi ogni volta nei miei ricordi, come un pasto indigesto. L’acqua è vita, chi potrebbe contestarlo?
L’acqua è buio e paura, è sesso e inconscio, è sana fresca vitalità, suicidio e incubo, rinascita, sporcizia: indubbiamente qualcosa che ricorre nel nostro immaginario, un legame atavico che rende i nostri occhi e il nostro cervello, fertili di domande e considerazioni al riguardo. Anche la fotografia sembra avere molto a che spartire con essa.

Jeff Wall, Milk, 1984

Jeff Wall, Milk, 1984

Il fotografo canadese Jeff Wall, grande esploratore della staged photography e delle caratteristiche tecnico-filosofiche insite nel medium, ricorda che «l’acqua svolge un ruolo fondamentale nello sviluppo di una fotografia», quindi è effettivamente vita, «ma la sua quantità e il tempo riservatole devono essere controllati con la massima attenzione, se non si vuole distruggere l’immagine» [1]. Allora l’acqua diventa anche morte e privazione, e il suo rapporto di dipendenza con la fotografia è circolare come lo Yin e lo Yang, con implicazioni che non toccano solo la sfera meccanica del procedimento, ma anche quella dei significati e dei contenuti, specialmente nell’epoca del digitale. Jeff Wall è uno dei primi ad aver analizzato questo oscuro, ma eclatante rapporto, con un testo breve, incisivo e pregno di riflessioni complesse, dal titolo Fotografie e intelligenza liquida, in cui teorizza i due poli opposti di questa interazione: da un lato l’intelligenza liquida della natura, scivolosa, perpetua, armoniosa, da identificarsi con lo scorrere dei fluidi e dall’altro l’intelligenza secca, dei meccanismi fotografici, come ad esempio il gesto di aprire e chiudere l’otturatore, determinando l’istantaneità della fotografia. «Esiste un rapporto logico, un rapporto di necessità, fra il movimento di un liquido e il mezzo usato per riprodurlo visivamente». [1]

 

E quel rapporto di necessità, che sembrava permeare anche le criptiche didascalie del Grande Vetro, di Duchamp (che per alcuni non è altro che il simulacro di una fotografia) è qualcosa che vale la pena di indagare nelle sue possibili declinazioni.
Nel 2012, durante Paris Photo, all’interno dell’esposizione Acquisitions récentes, Giorgio Armani ha promosso e curato un percorso di 10 fotografie che ruotano intorno al tema dell’acqua, dal titolo Acqua #2, legato al progetto umanitario Acqua for Life™. Il materiale scelto da Armani, intendeva mettere in evidenza la forza e l’energia vitale di questo elemento, prediligendo trionfali landscape o frame ravvicinati dove il comune denominatore risulta il continuo, frenetico e instancabile movimento.Un modo abbastanza immediato e comune di intendere e rappresentare questo elemento.
Il mio senso dell’acqua è radicalmente diverso e mi sono divertito a presentare anch’io una virtuale selezione di autori legati a questo spunto. La cosa più logica è partire proprio da una delle immagini emblematiche di Wall, per quanto riguarda la riflessione sull’intelligenza liquida: l’opera in questione è la light box Milk (1984), sebbene già dal titolo sia chiaro che non stiamo parlando di acqua, ma di un altro liquido altrettanto fondamentale per la nostra esistenza. Quello che conta in questa immagine, è la contrapposizione fra la staticità, il rigore e la freddezza delle geometrie descritte dai mattoni del muro, l’ordinata scansione dei piani e il gesto ambiguo (perché nell’immagine appare statico) del protagonista, che agitando il cartone del latte, inocula il caos e la totale imprevedibilità fuori da qualsiasi controllo, in uno scenario che cercava inutilmente di contenere gli stati emotivi.

 

Michael Kenna, Sticks in Water, Shinji Lake, Honsu, Japan, 2001

Michael Kenna, Sticks in Water, Shinji Lake, Honsu, Japan, 2001

Questo vale per qualsiasi sostanza liquida, massima espressione del mondo naturale, contro l’universo tecnologico.
Questo vale per l’acqua, un elemento che la fotografia cerca inutilmente di domare, rischiando invece di restarne sopraffatta: molti fotografi che hanno posto questo elemento come cardine propulsivo di alcune loro creazioni, hanno preso le mosse da questa considerazione, scegliendo deliberatamente di lasciarsi vincere e “invadere”.
Michael Kenna, ad esempio, ha un rapporto quasi spirituale con essa: l’acqua, nei suoi scatti, trasforma magistrali paesaggi, in luoghi dell’anima, permeati da una solitudine quasi metafisica. Penso soprattutto al Giappone, che Kenna ha descritto (dal 2001 al 2012) come un aldilà profondamente malinconico e ideale, fatto di distanze incalcolabili e pace, silenzio e un’acqua che non si ferma mai di fronte alla posa lunga dell’otturatore, diventando a tratti fumo, a tratti un pavimento di nebbia, dove seppellire i nostri inutili ricordi.
Alcuni artisti hanno passato quel muro di attrazione e paura, verso un ignoto da cui non ci si può sottrarre, cercando nell’acqua una risposta alle proprie insicurezze: la giovane fotografa indiana Manjari Sharma ha toccato l’argomento in più occasioni, costruendoci intorno intere serie fotografiche: i suoi scatti sembrano partire da una visione più banale e superficiale come il reportage sui surfisti (Surfers), per passare a uno sguardo più ardito e consapevole in Water, dove l’uomo non è che un minuscolo Davide osservato dall’alto, di fronte al gigante delle sue paure, il mare, che da un lato minaccia e dall’altro seduce.

Manjari Sharma, serie The Shower Series

Manjari Sharma, serie The Shower Series

Anche Anastasia, immersa in una notte piena di colori, dialoga continuamente con l’acqua, che sia piovana, carica di cloro o quella ormai stantia e tiepida, di una vasca da cui non si vuole uscire.
Il punto più alto, Manjari Sharma (al di là della satura e vivace serie Darshan, che esula dall’argomento che stiamo trattando) lo tocca con lo splendido e delicato voyeurismo di The Shower Series, ventaglio attraente di intimità, in cui ciascuno di noi si può identificare. L’elemento acqua, in questo portfolio, diventa la culla di riflessioni dolorose e il gesto di “pulirsi”, lavare via lo sporco, diventa soprattutto metaforico.
Scendiamo di qualche atmosfera ancora, in questo breve viaggio nelle profondità fotografiche e ci troviamo nel punto di interazione, consapevole, scelto e sperimentale, fra acqua e corpo: Arno Rafael Minkkinen nel lavoro

Arno Rafael Minkkinen, Fosters Pond, 1993

Arno Rafael Minkkinen, Fosters Pond, 1993

Water and Sky, distorce i corpi, li nasconde e poi li annulla, li diluisce nelle trasparenze acquatiche come se stesse cercando la chiave di un segreto che determini la metamorfosi fra questi due soggetti così intimamente connessi, eppure per certi versi alieni, l’uno dall’altro. Sembra che l’uomo, attraverso l’acqua, cerchi di spersonalizzarsi e mutare in qualcosa di diverso da se stesso, di diventare natura e purezza, un’entità da confondere col paesaggio, che non sembri costantemente un’anomalia. Minkkinen utilizza linguaggi che richiamano la Land Art e la performance, come già accadeva con Robert & Shana ParkeHarrison.
Diversamente i bambini di Debora Schwedhelm, in From The Sea, sono entità riconoscibili, che trovano nell’acqua un mezzo per acquistare una consapevolezza adulta, una sicurezza meditabonda e fiera: non sorridono mai questi piccoli uomini e i loro giochi sembrano un serio e rigoroso allenamento per acquistare sicurezza, come hanno già fatto quando, poco tempo prima, muovevano i primi passi da una poltrona all’altra del salotto. Un presentimento di quanto il futuro si stia avvicinando a lunghe falcate.

Debora Schwedhelm, serie From The Sea

Debora Schwedhelm, serie From The Sea

Infine, un ultimo passo nell’oceano più cupo e indecifrabile, che chiude un po’ il cerchio con le considerazioni di Jeff Wall e con i mantra del pensiero positivo, spalmati sui poster della mia gioventù: l’acqua come zona liminare, di passaggio, fra vita e morte.
Prendiamo allora in considerazione la stupefacente serie Awakened (2007), di David LaChapelle, una sospensione irreale che è specchio della risposta a una domanda decisiva, comune a tutti gli esseri viventi, congelata nell’attimo in cui diventa intellegibile: «cosa ci aspetta un istante dopo il nostro ultimo respiro?» Ma se la luce soprannaturale di questa presunta rivelazione, che il fotografo americano mette in scena, è vivida e brillante, le immobilità di Desiree Dolron in Gaze (1996-1998) sembrano, al contrario, vasche di formalina torbide, dove la luce arriva da troppo lontano, debole, malata, e non c’è senso di liberazione, ma solo un abbandono irrimediabile e definitivo, come la parola FINE.
[1] J. Wall, Fotografia e intelligenza liquida, in Un’altra obiettività, cat della mostra a cura di J.-f. Chevrier – J. Lingwood, Milano, Idea Book, 1989, pp. 231-232.

 

David La Chapelle, Sarah, dalla serie Awakened, 2007

David La Chapelle, Sarah, dalla serie Awakened, 2007

Desiree-Dolron-Gaze-Study-15-1996-98.jpg

Desiree Dolron,Gaze,Study #15, 1996-98

 

Ascolto consigliato: Deftones, Digital Bath

 

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