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Gottfried Helnwein, arte della realtà

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Helnwein - Installazione The Last Child - Wateford 2008

di Riccardo Tronci

– Facciamo a chi distoglie lo sguardo, per primo. Una cosa da bambini, una sfida, in cui vincono solo i pochi capaci di non sorridere e penetrare le orbite altrui. Una cosa da bambini e tuttavia, riuscireste a trovare un adulto capace di sostenere lo sguardo accusatorio di un bambino? Quel particolare sguardo che mette a nudo, che accusa irrimediabilmente, di fronte al quale non esistono parole di risposta. Perchè al dolore? E perchè al dolore di un bambino?

 

Approcciarsi a parlare di Gottfried Helnwein è realmente molto difficile. Non si può scriverne con la stessa veemenza con cui si tratterebbero i maestri rinascimentali perchè parla a noi, al nostro tempo e di noi, del presente. Non possiamo tantomeno pretendere di ridurre la sua opera a lezione contemporanea, opinioni ed idee provocatorie, sarebbe oltremodo riduttivo, una ingiuria. L’unico modo possibile, prima che l’attuale cominci a confondersi con il passato ed i nomi a comparire nei manuali, è quello dello stupore, dello stupore vergine.

 

Wateford, 2008. Una installazione lunga tutta la città, fatta di soli ritratti di bambini. Innocenti. E non. Ed il fatto è proprio questo: osservare una bambina brandire un fucile come se fosse la sua professione, come se fosse molto più di un giocattolo, ma un oggetto con il quale si ha una confidenza intima, ci induce immediatamente a chiederci dove abbiamo sbagliato. In un momento in cui i guru planetari del marketing sostengono l’inutilità dei pannelli, dei manifesti e di tutto ciò che è visivo, spostando l’attenzione verso gli altri sensi non ancora sovraccarichi come la vista, Gottfried Helnwein cattura tutta l’attenzione possibile con delle immagini.

Helnwein, The Last Child (Installazione), Wateford 2008

Helnwein, The Last Child (Installazione), Wateford 2008

 

Un bambino insanguinato, coperto e riverso su monete da un euro. Un bambino morto, ad occhi aperti, vestito in uniforme. Una bambina che imbraccia un fucile e mira dall’alto di un palazzo. Una bambina che guarda, fissa, dentro le persone. Sono foto, opere miste su tela, contaminazioni e differenti tipologie di arti e materiali per una installazione unica, shoccante, composta, come sempre nel suo lavoro, di bambini.

 

Helnwein, The Last Child (Installazione), Wateford 2008

Helnwein, The Last Child (Installazione), Wateford 2008

Helnwein è nato nel 1948 e ha raccontato come il mondo austriaco, da poco finita la seconda guerra mondiale, fosse il pianeta più frustrante possibile per un bambino, in cui l’unico alleato ed eroe gli venne in visita sotto le sembianze di un papero firmato Disney: “Era come vivere in un limbo, attorniato da case distrutte e mai ricostruite, tutti sembravano essere depressi. Non ho mai sentito nessuno cantare o ridere.  Sembrava che le persone avessero totalmente perso l’abilità di parlare e riflettere”. Un giorno ai suoi occhi di bambino si presentò una persona che camminava con passo veloce, che guardava per terra, vestita di strani indumenti a righe. A più riprese il giovanissimo Helnwein chiese chi fosse, meravigliandosi del non ricevere alcuna risposta.

 

Poi qualcuno si degnò: “E’ un ebreo”. “E cos’è un ebreo?”. “Divenne come una sorta di ricerca, dato che nessuno ne parlava e sembrava sapere niente di qualcosa che stava realmente accadendo” e scoprendo la triste realtà Helnwein perde anche l’innocenza. “Il mio senso di giustizia di bambino si ruppe irrimediabilmente. Perché l’idea che qualcuno fosse stato torturato o ucciso, fu qualcosa che mi urtò terribilmente, che ritenevo incredibile. Ed è la precisa ragione per cui ho iniziato a dipingere, mi chiedevo cosa sarei stato, cosa avrei fatto”.

 

Ed ecco l’incontro con un personaggio fantasioso, che vive in un mondo più “giusto”, dove il dolore ha un aspetto differente e niente si rompe definitivamente: “Sentivo di essere appena tornato a casa, in un mondo decente dove uno può essere appiattito da un rullo compressore e perforato dai proiettili senza subire ferite serie, un mondo in cui la gente sembra giusta con becchi gialli e pallini neri al posto del naso. E fu lì che incontrai l’uomo che mi cambiò la vita: Paperino”.

 

Helnwein, Epiphany

Helnwein, Epiphany

Helnwein fa ciò che ogni artista in ogni epoca ha fatto: traduce la sua ossessione ed il suo contesto nella sua opera, osserva e descrive. La sua innocenza perduta e il suo paese, all’epoca irrimediabilmente segnato dal nazismo, vanno a creare insieme un universo onirico e tenebroso di sorrisi enigmatici ed epifanie spettrali.

 

L’abitudine della critica a rinchiudere artisti dentro a scatole lo associa inevitabilmente alla corrente dell’iperrealismo, ed è l’operazione più facile, sommaria, semplice, superficiale. Lo vediamo in alcuni video aggirarsi per il suo studio ritoccare incessantemente l’una o l’altra tela, già perfette, provare tonalità di colore direttamente sui guanti e apportare piccoli ritocchi. Helnwein non solo appartiene all’iperrealismo, è ossessionato dalla forma del reale e tuttavia va ben oltre la corrente artistica. Come potrebbe, altrimenti “fotografare” Mickey Mouse assieme a Adolph Hitler?

 

La sua arte è stata definita più volte oscena, a partire dal suo esordio in un liceo cattolico. Si tagliò per sbaglio e con il suo sangue dipinse un ritratto di Hitler: venne espulso. Sempre Hitler è al centro del trittico “Epiphany”, lo troviamo bambino, adorato dagli alti gerarchi nazisti simili a Re Magi, in collo alla Madonna. “Un bambino rappresenta per me una diversa opportunità per l’umanità. Vedere un bambino significa speranza” dice Helnwein e legge nella parola speranza reale possibilità e polemica al tempo stesso. Un bambino è un seme da cui può germogliare una pianta, ma in un determinato contesto cresceranno solo alcuni tipi di piante.

 

Nella società delle armi i bambini saranno violenti, nella realtà della violenza e degli abusi i bambini non impareranno la civiltà, subiranno solo nonsense dittatoriali e imposizioni. Di qui la necessità che un artista sia libero e riesca a mostrare alla società la sua vera natura, in pura funzione catartica: “L’aspetto essenziale dell’arte è la libertà, assieme all’indipendenza. La libertà di esprimere qualsiasi cosa che ritieni vitale. Anche se questo andasse contro lo spirito dittatoriale della società. (…) Un artista deve trovare la solitudine dentro se stesso, sorpassare le convenzioni e andare per la sua strada. Non c’è altro modo. E in un certo senso l’artista sarà sempre l’antagonista della società, verrà additato come sospetto, illegale e a volte imbarazzante. E’ inevitabile. Ma l’artista, allo stesso tempo, vive all’interno della società e i suoi lavori riflettono il suo contesto, il  suo tempo con le paure e i desideri (…) Per cui un artista deve anche stare bene all’interno della società, per descriverla. L’artista è come un funambolo sul confine di creare il suo personale universo fuori della società rimanendo dentro di essa (…)”.

 

Torniamo a Wateford, 2008. Una intera città cosparsa dal sangue innocente di bambini, una intera città guardata dagli occhi interrogativi, accusatori e profondi di bambini. Tra tutte le foto del report dell’installazione quella che più colpisce è questa.

Helnwein, The Last Child (Installazione), Wateford 2008

Helnwein, The Last Child (Installazione), Wateford 2008

E non per l’iperrealismo dell’opera. Ma per la troppo poca realtà della realtà stessa.

 

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