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Coltivazioni di polvere: le stanze avariate di Roger Ballen

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di Alessandro Pagni

Nel 1920 Man Ray si trova a visionare un’opera dell’amico Duchamp, lasciata momentaneamente incompiuta in un angolo del suo studio: si tratta di una doppia lastra di vetro su cui cui il tempo ha posato una fitta galassia di ciuffi di polvere. Man Ray affascinato dall’effetto di quelle sedimentazioni prodotte dal tempo, decide di fotografarla, dandogli l’ironico titolo Elévage de Poussière (Allevamento di polvere), con quell’attitudine tipicamente surrealista, che lo contraddistingue.
In seguito Duchamp fisserà al vetro gli impalpabili frammenti depositati, rendendoli parte integrante, di quello che dal 1923, diventerà il suo più celebre capolavoro, La sposa messa a nudo dai suoi celibi (conosciuto anche come il Grande Vetro) che, come abbiamo già detto in un post precedente, avrà importantissime implicazioni per la storia del medium fotografico.

©Roger Ballen

Room of the Ninja Turtles, 2003, dalla serie Shadow Chamber ©Roger Ballen

Non è di Man Ray che intendo parlare propriamente in questo post, né del Surrealismo o di Duchamp, ma della polvere.
A distanza di quasi cento anni da quelle intuizioni, Roger Ballen, un fotografo americano di origine, ma residente in Sud Africa, ha fatto dell’estetica della polvere, dell’accumulo di tracce, il centro focale di gran parte dei suoi lavori.
Davanti a queste immagini, il sentimento predominante è il disagio, la sensazione di violare una dimensione privata e feroce, dove un caos lurido e apparente nasconde in realtà qualcosa di più inquietante: una meticolosa, inesauribile produzione di loculi intimi, stanze che sembrano intercapedini dell’inconscio. Non dobbiamo lasciarci ingannare dal disordine, che sembra figlio di un approccio amatoriale al mezzo; le immagini costruite da Ballen non lasciano niente al caso, non hanno la giocosità istintiva e dolente di una Francesca Woodman, a cui si potrebbe superficialmente paragonare, se si considera questi set come infantili misurazioni di se stessi, all’interno dei vuoti che ci circondano.

Squawk, 2005, dalla serie Boarding House ©Roger Ballen

Head Inside Shirt, 2001, dalla serie Shadow Chamber ©Roger Ballen

La polvere non è che l’elemento agglomerante di una serie di operazioni stratificate, che trovano eco in alcuni grandi nomi dell’arte sperimentale del secolo passato. Le scene rappresentate hanno il sapore di uno sfogo non calcolato, qualcosa come un flusso di coscienza, come la scrittura automatica che ancora ci riporta al Surrealismo, agli anni ’20 del Novecento e allo studio sulla malattia mentale applicata alle forme creative di comunicazione, intrapreso da artisti come Max Ernst e Paul Klee, nel loro tentativo ostinato di codificare le “origini primarie dell’arte”: la simulazione di condizioni di infantilismo, primitivismo, schizofrenia, allucinazione e fantasie da trauma.

©Roger Ballen

Boarding house, 2008, dalla serie Boarding House ©Roger Ballen

«È un paradosso della ricerca modernista: l’immediatezza espressiva va perseguita attraverso la mediazione di forme complesse come quelle degli oggetti tribali e delle immagini schizofreniche» [1]

e sebbene Ballen non vi aderisca dichiaratamente, anche solo per distanza temporale e geografica, sembra in qualche modo ricreare l’habitat di questi esperimenti. I suoi luoghi angusti somigliano, nel nostro immaginario plagiato da fantasie cinematografiche, a istituti di detenzione e correzione mentale di un tempo perduto, a nascondigli dove giocare con i propri istinti spaventosi e struggenti, come la cantina di una intera vita per il perseguitato Saudek.
Un altro tassello importante per comprendere i puzzle tridimensionali imbastiti da questo fotografo è il richiamo in quasi tutte le opere, all’arte del graffito, visto in chiave infantile e primitiva, che trova il suo paragone più autorevole in foggia di gelatina d’argento, nelle visionarie e profetiche catalogazioni dei graffiti parigini, compiute da Gyula Halász, conosciuto con lo pseudonimo di Brassaï.

Porte de Saint-Ouen, Paris, 1945-1950 ©Brassaï

Scritte, disegni, graffiti, segni del passaggio umano, non sono solo elementi di contorno che danno carattere alle locations, il più delle volte queste maschere distorte (ricordate l’album di Lucybelle Crater raccontato da Meatyard) diventano protagoniste della scena, dialogano con gli umani presenti nel campo visivo, spesso relegandoli a ruoli marginali o trasformandoli in oggetti inanimati e decorativi.
Quella dell’artista sudafricano è una staged photography infetta, priva di lustrini e paillettes, lontana dalle costruzioni pompose di un LaChapelle o dell’ironia beffarda di un Les Krims; e anche quando si misura con il reportage, nei suoi primi lavori degli anni ’80, come Drops e Planned, il senso della polvere, dell’accumulo, non va mai via, complice una forte adesione alla lezione della Arbus, però riscritta in una lingua che conosce e lo rappresenta.

©Roger Ballen

Happy Happy, 2000, dalla serie Boarding House ©Roger Ballen

Dopotutto, non è solo di polvere che parla questo articolo, ma di ogni forma possibile di stratificazione: di oggetti, significati e tracce, che poi è il senso più intimo e onesto del fare fotografia.

[1] H. Forster, R. Krauss, Y.-A. Bois, B.H.D. Buchloah, Arte dal 1900: Modernismo, Antimodernismo, Postmodernismo, Bologna, Zanichelli, 2006, pp. 180.

Ascolto consigliato: Dead Skeletons – Dead Magick

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